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  1. Jul 2019
    1. Assertioni quoque huic adhuc adiungitur, quod ipse pro amicis delinquentibus intercedit. In gravibus namque peccatis quis positus, dum suis premitur, aliena non diluit. Mundus ergo ostenditur esse de se, qui emundationem potuit obtinere pro aliis. Si vero hoc quibusdam displicet, quod bona sua ipse narravit, sciendum est quia inter tot rerum damna, inter tot corporis vulnera, inter tot pignorum funera, amicis ad consolationem venientibus, et ad increpationem prorumpentibus, de vita sua desperare cogebatur; et quem tot detrimenta afflixerant, contumeliosa insuper increpantium verba feriebant. Hi namque, qui ad consolandum venerant, dum quasi eius iniustitiae exprobrabant, desperare eum de semetipso funditus compellebant. Quod ergo bona sua ad mentem revocat, non se per iactantiam elevat; sed quasi collapsum inter verba et vulnera ad spem animum reformat.

      Gregorio fornisce qui un’ulteriore prova dell’innocenza di Giobbe argomentata nel passaggio precedente, menzionando per la prima volta il ruolo degli amici e definendoli immediatamente deliquentes: tale connotazione si oppone – tanto sul piano linguistico quanto su quello concettuale – alla negazione, anch’essa espressa nelle righe precedenti mediante l’utilizzo del verbo delinquo, degli errori che potrebbero essere imputati a Giobbe. A provare, secondo Gregorio, ulteriormente la sua innocenza è proprio la sua intercessione per costoro, dal momento che egli chiede il perdono per chi lo rimprovera come se fosse colpevole (quasi eius iniustitiae exprobrabant). Ciò, secondo Gregorio, può essere compiuto solo da chi non è oppresso dalle proprie colpe e, ancor più precisamente, da colui che non se per iactantiam elevat. La prima occorrenza, nei Moralia in Iob, del termine iactantia introduce uno dei temi centrali nella produzione gregoriana, vale a dire quello del peccato d’orgoglio, altrove denominato superbia o inanis gloria (Regula Pastoralis III, 24, PL 77, 94A e 95C) in riferimento a coloro i quali, non facendo propria la virtù dell’umiltà, forniscono un’interpretazione errata della Scrittura. In questa occasione, invece, ci si sofferma sul valore positivo dell’enunciazione dei meriti di Giobbe la quale, lungi dal farlo apparire superbo, è utile secondo Gregorio a ridare speranza all’animo ferito.

      Bibliografia: J. Dietrich, Knowledge and Virtue in the Regula Pastoralis of Gregory the Great: The development of Christian argumentation for the late Sixth century, in «Journal of Late Antiquity», 8.1 (2015), pp. 136-167.