- Jul 2019
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Si ergo excessisse Iob dicitur, laudator illius succubuisse perhibetur, quamvis eum nullatenus deliquisse etiam dona testantur. Quis enim nesciat quod culpis non praemia, sed poenae debeantur? Qui ergo duplicia recipere quae amiserat meruit
... fino a dixit (non mi fa evidenziare)
Dopo aver mostrato, nel paragrafo precedente, i pericoli di una interpretazione errata delle parole della Scrittura, Gregorio illustra i presupposti di cui si deve tener conto per comprendere come i premi successivamente ottenuti da Giobbe testimonino la sua innocenza. L’utilizzo del verbo debeor (f.p. di debeo. Tra i significati della f.p. vi è anche quello che indica l’essere destinato per legge di natura o fatalità) suggerisce i caratteri del rapporto colpa-pena nel caso di Giobbe: dal momento che alla fine viene ottenuto il doppio di ciò che era stato perduto, da ciò si deduce che le parole di Giobbe sono da considerarsi virtus piuttosto che vitium e che quando c’è un premio non può esserci una colpa. Pertanto, il fatto che Dio si schieri dalla parte di Giobbe sembra qui legittimare, agli occhi di Gregorio, una concezione del rapporto colpa-pena/merito-premio che in altre circostanze si sarebbe scontrata con quella di un creatore dalla volontà imperscrutabile. Nel diciottesimo libro dei Moralia (18, 40, 63), per esempio, viene presentata la classica impostazione agostiniana (fondata su citazioni paoline) per cui la grazia non dipende dal merito, dal momento che le opere buone sono già testimonianza della sua presenza. Tale posizione viene esplicitata anche nel corso del commento ai vv. 12-15 del libro di Giobbe (parte in cui ci si interroga sull’origine della sapienza) e suffragata dall’esempio del ladrone crocifisso insieme a Cristo (Moralia 18, 40, 64).
Bibliografia: A. B. Romagnoli, Gregorio Magno davanti a Giobbe. Fondamenti di un'antropologia medioevale, in I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari, a. c. di G. Marconi - C. Termini, Bologna 2002, [pp. 127-145], pp. 138-139.
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