- Dec 2020
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Sed subtilius perscrutandum est cur tot flagella pertulit, qui tantam virtutum custodiam sine reprehensione servavit
L'espressione 'Sed subtilius perscrutandum est' indica una prassi molto comune nell'esegesi biblica di Gregorio Magno, vale a dire quella di trattare il medesimo argomento o versetto biblico su più livelli, procedendo per gradi che non rispettano necessariamente il classico iter dei sensi della Scrittura. Se, in questo caso, il paragrafo precedente ruotava intorno a un generico possesso, da parte di Giobbe, di virtù praticate in momenti di tranquillità ma rese note ai più perché manifestate anche nella tribolazione, la parte iniziale del terzo capitolo della praefatio dei Moralia in Iob si propone di approfondire tale argomento esaminando subtilius il motivo alla base delle sventure abbattutesi su Giobbe, uomo virtuoso.
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- Jul 2019
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Assertioni quoque huic adhuc adiungitur, quod ipse pro amicis delinquentibus intercedit. In gravibus namque peccatis quis positus, dum suis premitur, aliena non diluit. Mundus ergo ostenditur esse de se, qui emundationem potuit obtinere pro aliis. Si vero hoc quibusdam displicet, quod bona sua ipse narravit, sciendum est quia inter tot rerum damna, inter tot corporis vulnera, inter tot pignorum funera, amicis ad consolationem venientibus, et ad increpationem prorumpentibus, de vita sua desperare cogebatur; et quem tot detrimenta afflixerant, contumeliosa insuper increpantium verba feriebant. Hi namque, qui ad consolandum venerant, dum quasi eius iniustitiae exprobrabant, desperare eum de semetipso funditus compellebant. Quod ergo bona sua ad mentem revocat, non se per iactantiam elevat; sed quasi collapsum inter verba et vulnera ad spem animum reformat.
Gregorio fornisce qui un’ulteriore prova dell’innocenza di Giobbe argomentata nel passaggio precedente, menzionando per la prima volta il ruolo degli amici e definendoli immediatamente deliquentes: tale connotazione si oppone – tanto sul piano linguistico quanto su quello concettuale – alla negazione, anch’essa espressa nelle righe precedenti mediante l’utilizzo del verbo delinquo, degli errori che potrebbero essere imputati a Giobbe. A provare, secondo Gregorio, ulteriormente la sua innocenza è proprio la sua intercessione per costoro, dal momento che egli chiede il perdono per chi lo rimprovera come se fosse colpevole (quasi eius iniustitiae exprobrabant). Ciò, secondo Gregorio, può essere compiuto solo da chi non è oppresso dalle proprie colpe e, ancor più precisamente, da colui che non se per iactantiam elevat. La prima occorrenza, nei Moralia in Iob, del termine iactantia introduce uno dei temi centrali nella produzione gregoriana, vale a dire quello del peccato d’orgoglio, altrove denominato superbia o inanis gloria (Regula Pastoralis III, 24, PL 77, 94A e 95C) in riferimento a coloro i quali, non facendo propria la virtù dell’umiltà, forniscono un’interpretazione errata della Scrittura. In questa occasione, invece, ci si sofferma sul valore positivo dell’enunciazione dei meriti di Giobbe la quale, lungi dal farlo apparire superbo, è utile secondo Gregorio a ridare speranza all’animo ferito.
Bibliografia: J. Dietrich, Knowledge and Virtue in the Regula Pastoralis of Gregory the Great: The development of Christian argumentation for the late Sixth century, in «Journal of Late Antiquity», 8.1 (2015), pp. 136-167.
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Humilitatem quippe habuit, quia et ipse testatur:Si contempsi iudicium subire cum servo meo, et ancilla mea,cum disceptarent adversum me(Gb31, 13). Hospitalitatem exhibuit, sicut ipse perhibet, dicens:Foris non mansit peregrinus, ostium meum viatori patuit(Gb31, 32). Disciplinae vigorem tenuit, sicut ipse indicat dicens:Principes cessabant loqui, et digitum superponebant ori suo(Gb29, 9). Mansuetudinem in vigore custodivit, sicut ipse fatetur, dicens:Cumque sederem quasi rex, circumstante exercitu, eram tamen moerentium consolator(Gb29, 25). Eleemosynarum largitatem amplexus est, sicut ipse insinuat dicens:Si comedi buccellam meam solus, et non comedit pupillus ex ea(Gb31, 17).
Gregorio enumera qui le virtù possedute da Giobbe per mezzo di citazioni tratte dai capitoli 29 e 31 del testo commentato. La ripetizione di espressioni quali 'ipse testatur', 'sicut ipse perhibet', 'sicut ipse indicat' e simili sembra voler porre l’accento sul fatto che sia Giobbe stesso a riconoscere le proprie virtù, le quali - come anticipato da Gregorio stesso - prima della scommessa non avevano avuto l’occasione di manifestarsi se non in momenti di tranquillità.
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